Italian

Lackfi Jànos
Là dove esiste il tempo…

Là dove esiste il tempo, là il tempo esiste,
sull’autostrada e sul sentiero campestre,
nelle ruote del camion in movimento
il tempo lavora inavvertito,
nelle ruote del carro, come il raggio,
uno strisciante rettile come un solare raggio,
dal centro del cerchio si estende,
tutto fermenta nella calura,
tutto si accascia e tutto si sfascia,
ma come verde fontana torreggia
salito in alto dalla putrefazione
foresta tropicale, albero allampanato.

Nell’albero il tempo nuota verso il cielo,
anche nell’edera dal ritmo diverso
che s’arrampica su per l’albero succhiandolo,
il tempo sorbendo il tempo,
un tempo riversandosi nell’altro
a mo’ di cateratta, affluisce come alluvione,
la base dei muri s’incava per il tempo,
rosso-ruggine invade i ferri
verde si pone sul fianco delle statue,
la sua barba femmina sulle botti,
velloso si moltiplica negli angoli,
tutto divora, dalla totalità alla singola parte.

Il vento lo solleva nei semi,
molte bombe-tempo esplodono sonnacchiose,
e la vegetazione, come una nube fungo,
si estende nell’aria,
qui come sarmento si piega in profondità,
là come esercito di formiche fa rotolare briciole,
qui fruscia, come filamenti di muschio,
come quercia là brontola : bestia-totem.

Cresce in una tumefazione cancerosa,
in un germoglio appiccicoso, in sboccio,
fermenta, si gonfia come pasta,
si infiamma, il fungo dopo la pioggia,
era ancora una spora qualche giorno fa,
oggi è come una palla caduta nel giardino.

C’è una sveglia nell’infante,
come per fame, piange intensamente,
e come se per coliche s’attorcigliasse il ventre,
il tempo l’addormenta, ninnananna,
il tempo lavora con le sue dita minuscole
grassocce, e forse rotea il coltellaccio
da norcino in un cortile insanguinato,
il tempo lavora nel sottobosco,
la nervature si dissecca nelle ossa di una mano,
si polverizza la carne della foglia, lascia
qualche trina sottile di tempo,
su cui la suola può camminare frusciando.

Bloccato con la testa in giù nel budino,
nel sangue coagulato, eccolo nel glutine in raffreddamento,
nel semolino che sta mettendo la pellicola,
nell’acqua invernale che si ghiaccia,
nelle nuvole in rigonfiamento
e in ciò che si disintegra senza posa
si scioglie e si coagula e s’incenerisce,
nell’intimo cova la rivoluzione.

Con pazienza ingiallisce i denti,
assottiglia la pietra e l’uomo,
il terreno dei monti deterge,
fino alla roccia, fino alle nude ossa,
contrae le ossa dei defunti,
il passo dei viandanti consuma il marmo,
il tempo è presente su tutti i percorsi,
nelle prigioni finché c’è vita, nelle galere.

Pioviggina come faville dal cielo,
se la biblioteca crolla incendiata,
aleggia, come farfalla in liquefazione,
svapora come un respiro minuscolo,
bussa come grandine, tambureggia come acquazzone,
accoppa e infradicia,
inzuppa tutti i tuoi abiti,
il tuo corpo si sfilaccia come bambagia,
assale la membrana della tua pelle,
lo vedi incurvarsi, spenzolare
come l’antica chiazza muffida sul muro,
sul tuo metacarpo appaiono le foglioline della morte,
ogni tuo capello sarchia,
dipinge di bianco le tue ciglia,
ogni singolo pelo, con un fine pennello,
da restauratore, vernicia d’argento,
non si risparmia, impone il suo sigillo
giallo rosso sulle foglie,
i suoi scrivani orbi segnano
in modo percettibile
la buccia delle mele, delle susine e delle pere
con la marcescenza che ogni cosa divora.

Stride la cicala come cristallo di quarzo,
nei mobili i tarli scavano gallerie,
sul collo delle lucertole, dei ratti e della rane
il moto spedito del tempo pulsa,
nelle notti insonni si rode dalla rabbia e
il rimbombo dei tamburi divora tutto,
martellando i nostri timpani
giunge fino al midollo, strepito cadenzato,
sentiamo ruotare gli atomi,
il cigolare sugli assi,
la curvatura temporale delle orbite
si gelatinizza sul cielo,
in ogni filo d’erba, in ogni cellula
il tempo segretamente ticchetta,
tutti gli esistenti perduti nell’accaduto,
in transito dall’ accade in ciò che avverrà,
vengono inghiottiti dal “non c’è” o dal “ci sarebbe”-
l’orologeria di Dio strepita.

Traduzzione de Tommaso Kemény

CANTO-VALANGA

János Lackfi

Ho un coltello per intagliare, pantofole di feltro,
Della carne di pollo congelata
Un sorso di mele rosse, tutte bacate,
Miele che ancora mi appiccica la bocca,
Perle che danzan nel vino a milioni,
Da malato, ho chi mi cura,
Ho un tesoro piccino, quattro teste biondastre,
Quattro chiome da barboncino, quattro bocche a lappare,
Ho mura di cantina muschiose, dormienti,
Un cucchiaio di legno intagliato da me,
Ed anche un pallone di cuoio gonfiato un gran palloncino,
Del vino, e se mi andasse, una Guinness,
Ho felicità ed ho anche apatie,
Ho un dio e per esso ho un libro di salmi,
Alba, tramonto, mezzodì,
Un gran letto matrimoniale,
Ho una vecchia pipa mai accesa,
Ho bieche cispe da togliermi,
Il fuoco, ardente, un amico per bere liquori,
Una barca non piccola ed un piccolissimo Ararat,
Una Skoda verde, in fondo a cui agonizza il motore,
Nel giardino l’arpa (eolia) che fa un chiassoso rumore,
Ho un uccellino, se si posa sul prato,
Ho dell’aria, mia solo, che entra e che esce,
Ho rime, ed a sufficienza carta e matite,
Della posta che riempe la mia cassetta caoticamente,
Squilla il telefono, mi cercano,
Affondo nel mio lavoro arretrato come nella neve,
Ho progetti in gran numero, di tempo un secondo,
Scarpe na ginnastica e rachetta da volano,
Sassi, minerali, conchiglie,
Pane per la cena: una fetta che somiglia alla luna,
Fame da lupo, umore da Omero,
Ed ho un buco sulla porta, dove la mia rabbia
Con un calcio ho sfogato: ora digrigna i denti,
Abbiamo anche un idraulico se il rubinetto si guasta
Ci vuole un sacco per l’immondizia: la spazzatura si accumula,
Se la pianta cresce ci vuole un vaso,
Per ogni materiale un cesto, una cassa,
Un barattolo, una bottiglia, un sacco, una brocca,
Ci vuole un vestito, se quello vecchio è bucato,
Ci vogliono i ganci, gli scaffali, gli attaccapanni,
Nella nostra casa-scatola ci sono mille scatolette,
E tutto è una nuova Matrioska.
Io rotolo in quello che ho, e quello che hol lo rotolo io,
E vortico nella slavina di questo mercato:
La proprietà mi trascina, come une valanga,
Perché partorisce altri cose da avere, tutto quello che esiste.

ELEGIA AD UNA PERSONA
Sulla corda dell’orizzonte un lenzuolo blu verdastro era steso ad asciugare,
era sempre fradicio anche se da secoli il vento gli soffiava contro
e faceva mille rughe, come la crema del latte bollito,
il suo mantello si strappava e si spianava.
Stavo sull’alta riva, avrei tolto molto volentieri dalla corda
il Balaton, per stenderlo e sdraiarmi sopra
riposarmi di tutto, seppellire la mia faccia
Sotto di me, sul cardigan verde delle colline, il treno andava su e giù
come un lampo, e il vecchio ponte faceva piroette sui binari,
sul suo corpo teso come un arco un pallone rotolava ogni giorno crepitando
Nella mano sbriciolavo la spugna della farina di bianca schiuma,
era asciutta, tuttavia, tra le particole dimorava
un fresco umido, che ho attirato fuori io con le lusinghe, come si fa venir fuori
dal guscio una lumaca
il serpente dalla cesta, ha percorso il labirinto
della palma della mia mano, ha pulito i pozzi dei pori.
Ed i gusci vuoti, la filettature cadute dalla frequentazione antica
del mare, chissà ormai che cosa hanno – con che cosa –
con pennellate comode, gli alberi hanno schizzato
tutto ciò che poteva essere più o meno questo paesaggio dentro di me.
Anuii, come uno che ha il cranio traballante
sospeso ai fili di una marionetta di livello più alto
e forse soltanto grattandomi un po’ il capo
– forse – ho raschiato via la firma nascosta nell’angolo del quadro
perché anche se qui sotto abbiamo delle vie di fuga forzate che si incrociano,
questo mondo e’ stato assegnato al nome di Uno solo.

Traduzione in italiano: Alberto Menenti